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Doveva morire

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Doveva morire

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Quarantadue anni fa si consumava la vicenda del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro (dopo il massacro della sua scorta). Quest’anno lo desidero ricordare con uno dei più interessanti libri che ho letto negli ultimi tempi sull’argomento.

Scritto da Ferdinando Imposimato, recentemente scomparso, che fu il giudice istruttore del primo processo Moro, con la collaborazione del giornalista Sandro Provvisionato, il libro si intitola semplicemente ed emblematicamente “Doveva morire” ed è stato pubblicato per la prima volta nel 2008, esattamente trent’anni dopo la vicenda, e in seguito ripubblicato con aggiornamenti, aggiungendo nuove notizie e nuovi elementi mano a mano che si è cercato di far luce su quello che rimane uno dei casi più intricati e sconvolgenti della Storia della nostra Repubblica e senza dubbio il fatto di cronaca più rilevante del nostro decennio.


Libro assai fitto di notizie, interviste, verbali di interrogatori, lettere, rapporti e documenti vari. Mi limiterò qui a riportare sinteticamente le parti che ho trovato più interessanti, preavvisando che il libro sposa completamente la tesi “complottista”, senza arrivare ad eccessi ma mettendo in luce che a eliminare Moro, o almeno a volerlo morto, a un certo punto non furono soltanto le Brigate rosse…

L’Ucigos

L’Ucigos era una speciale struttura del Viminale creata dal ministro Cossiga all’inizio del 1978. L’acronimo significava “Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali”. Composto esclusivamente da alti funzionari della Polizia di Stato, aveva funzioni che andavano a sovrapporsi a quelle del Sisde (il servizio segreto civile), dipendeva formalmente dal capo della Polizia ma di fatto rispondeva solo e direttamente al ministro dell’Interno. In pratica, fu una specie di “servizio segreto personale” del ministro Cossiga.

La creazione dell’Ucigos portò allo smantellamento dell’Ispettorato antiterrorismo, che pure aveva cominciato a costruire una mappa dei movimenti eversivi e a raccogliere informazioni su singoli presunti terroristi. Provocò inoltre l’allontanamento di molte persone che fino a quel momento avevano avuto un ruolo fondamentale nella lotta al terrorismo. Investigatori esperti delle Brigate rosse, che già avevano contribuito ad individuare e a far arrestare i capi storici dell’organizzazione, furono inspiegabilmente esautorati e sostituiti nei compiti e nelle funzioni da uomini nuovi, vicini a Cossiga e da lui personalmente chiamati a far parte dell’Ucigos. Molti di questi uomini risultarono in seguito essere iscritti alla Loggia P2.

Tanto per fare solo un esempio di come questo organismo abbia ostacolato le indagini della magistratura, quando il giudice Imposimato scoprì, nel giugno del 1980, la prigione di Moro, ossia l’appartamento di via Montalcini 8, rimase esterrefatto nell’apprendere che l’amministratore dello stabile, da lui interrogato, aveva già ricevuto una visita nell’agosto del 1978 da alcuni uomini che si erano qualificati come funzionari dell’Ucigos e che gli avevano chiesto informazioni sulla coppia che abitava al pianoterra (i due brigatisti Anna Laura Braghetti e Germano Maccari).

In quei giorni, nell’appartamento abitava soltanto la Braghetti. I funzionari dell’Ucigos avevano detto all’amministratore che da lì a pochi giorni l’appartamento sarebbe stato perquisito. Invece non se ne era fatto nulla e la Braghetti poco dopo era scomparsa.

L’Ucigos, quindi, pochi mesi dopo l’uccisione di Moro aveva già individuato l’appartamento di via Montalcini e avrebbe potuto arrestare almeno la Braghetti; invece non fece nulla e non avvisò neppure la magistratura, che giunse a scoprire l’appartamento autonomamente e soltanto due anni dopo.

I comitati di crisi

Nei primi giorni dopo il sequestro, il ministro Cossiga formò un comitato per il coordinamento delle attività delle forze di polizia nel quale chiamò a far parte i vertici di Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza, Sisde, Sismi e Cesis; più il questore di Roma. Oltre a questo, altri due comitati di esperti da lui personalmente scelti in ambienti militari e scientifici. Uno di questi esperti fu, ad esempio, il criminologo Ferracuti, che costruì la teoria della “spersonalizzazione” subita da Moro durante la prigionia, per cui le lettere, pur scritte di suo pugno, non potevano essere a lui ascrivibili.

I comitati creati dal ministro Cossiga, che durante il sequestro si riunirono quasi quotidianamente, non produssero mai nulla di concreto e non esiste un solo verbale delle pur lunghissime sedute. Ma, per contro, produssero l’effetto di esautorare di fatto tutte le altre autorità competenti, in primo luogo la magistratura e in parte anche la Digos, che si trovò ad avere le mani legate durante il sequestro.

Specialmente il primo dei tre comitati, detto “tecnico-operativo”, composto da membri in larga parte appartenenti alla P2, fu quello che produsse i maggiori danni. Esso infatti aveva la prerogativa di accedere a tutti gli atti della procura di Roma, potendo conoscere nel dettaglio le mosse dei magistrati che indagavano sul sequestro Moro (il procuratore De Matteo e il sostituto Infelisi).

Inoltre il comitato tecnico-operativo non collaborò mai con la magistratura, anzi fece addirittura pervenire alla procura di Roma la prima lettera inviata da Moro in fotocopia, trattenendo per sé l’originale, impedendo così ai magistrati di fare uno studio serio e attendibile sulla lettera.

Scoppiò cosi durante i giorni del sequestro un vero e proprio “conflitto istituzionale” fra la procura di Roma e il comitato di Cossiga, ossia, in pratica, tra potere giudiziario e potere esecutivo, al quale i giornali diedero pochissimo risalto.

Detto conflitto si concluse addirittura con l’avocazione dell’inchiesta sul sequestro Moro dal procuratore De Matteo al procuratore generale Pascalino, uomo molto vicino a Cossiga, che il 29 aprile acquisì tutti gli atti delle indagini ed esautorò la procura di Roma, che da quel momento non si occupò più del caso Moro.

Steve Pieczenik

Uno degli uomini-chiave della vicenda fu senz’altro Steve Pieczenik, un esperto americano di antiterrorismo. Di origine russo-francese, emigrato negli Stati Uniti dove ottenne la cittadinanza americana, laureato in psicanalisi e in relazioni internazionali, entrò nel Dipartimento degli Esteri e fu incaricato da Kissinger di costituire la prima cellula antiterroristica negli Usa.

Pieczenik fu inviato in Italia dal presidente Carter, con l’incarico di aiutare il governo italiano a risolvere la crisi innescata dal sequestro Moro. La sua presenza venne tenuta nascosta dalle autorità italiane. L’esperto rimase a Roma in incognito per quattro settimane e partecipò a numerose riunioni dei vari comitati di crisi creati da Cossiga. La strategia che egli propose fu quella di intavolare una “finta” trattativa con le Br, non certo per accontentare le loro richieste, ma per dilazionare i tempi, logorare i nervi dei brigatisti e intanto intensificare gli sforzi per trovare il luogo dove Moro veniva tenuto prigioniero.

Ma fin dalle prime riunioni, Pieczenik ebbe la netta sensazione che Cossiga e i suoi uomini, nonché il presidente del Consiglio Andreotti, non volessero affatto ottenere la liberazione dell’ostaggio.
Anzi, mano a mano che le lettere di Moro si fecero sempre più drammatiche e minacciose, lasciando intendere che egli avrebbe rivelato importanti segreti di Stato, il ruolo dell’esperto si modificò radicalmente. Come da egli stesso riferito in un’intervista rilasciata vent’anni dopo, fu quella la prima volta nella sua carriera in cui a un certo punto non dovette più lavorare per salvare la vita dell’ostaggio nelle mani dei terroristi, ma, al contrario, dovette trovare un modo per accelerare la sua eliminazione.

In tale drammatico quadro, Pieczenik elaborò allora una “strategia psicologica” che piacque molto a Cossiga, ideando la stesura di un falso comunicato delle Br in cui veniva annunciata l’uccisione del prigioniero. In tal modo i brigatisti si sarebbero trovati “spiazzati”, in pratica messi di fronte ad un Paese che poteva benissimo reggere all’uccisione di Moro senza che nulla accadesse; e a quel punto non rimaneva loro altra via di uscita che quella di uccidere veramente l’ostaggio.

Come sappiamo, il piano di Pieczenik fu veramente applicato con la stesura del falso comunicato n. 7 delle Br, che il 18 aprile annunciò l’uccisione di Moro e l’ “affondamento del cadavere” nel lago della Duchessa.

L’Hyperion

Un punto che è stato esplorato pochissimo nel corso delle innumerevoli indagini sul caso Moro è il ruolo avuto dalla “scuola di lingue” Hyperion, creata a Parigi da terroristi fuoriusciti italiani legati soprattutto a Mario Moretti, che all’epoca del sequestro Moro era il numero uno delle Brigate rosse.

Ufficialmente si trattava di una scuola dedicata all’insegnamento delle lingue e ad altre attività culturali, come ad esempio i soggiorni di studio in altri Paesi, rappresentazioni teatrali e incontri multietnici.
Anche se nessuna inchiesta giudiziaria è mai riuscita a provarlo, molti magistrati sono convinti che l’Hyperion fosse in realtà una specie di “centro strategico” del terrorismo internazionale, dove vennero elaborate strategie di attacco agli obiettivi politici economici e militari dei vari Paesi.

Una vera e propria organizzazione internazionale, una “rete” terroristica che agiva sotto la copertura della scuola di lingue, ma che invece offriva asilo e procurava passaporti e documenti falsi a terroristi fuoriusciti, elaborava piani di attacco, selezionava obiettivi da colpire e, soprattutto, procurava armi alle varie organizzazioni terroristiche dell’Europa occidentale.

All’Hyperion, ad esempio, Moretti concluse degli accordi con uomini del terrorismo palestinese per far venire in Italia armi che poi vennero usate dalle Brigate rosse.

Non si è riusciti ancora a capire se l’Hyperion abbia avuto un ruolo nel sequestro Moro. Ma certamente vi sono degli indizi in tale direzione. Ad esempio, l’accertata presenza a Roma, nel periodo tra gennaio e maggio del 1978, di uomini appartenenti alla Raf (Rote Armee Fraktion) che erano in stretto contatto con l’Hyperion; il fatto che durante il sequestro lo stesso Moretti si sia recato più volte a Parigi e che proprio in quel periodo l’Hyperion aprì delle succursali sia a Roma sia a Milano, nelle quali, peraltro, risulta accertato che la società non svolse alcuna delle attività ufficiali rientranti nel proprio oggetto sociale (scuola di lingue, attività culturali, ecc).
Anzi, poco dopo l’uccisione di Moro, le sedi periferiche italiane vennero frettolosamente e misteriosamente chiuse. Ancora più inquietante il fatto che la sede dell’Hyperion a Roma si trovava nello stesso palazzo dove operava una cellula del Sismi, il servizio segreto militare.

Mario Moretti ha riferito più volte ai giudici che l’Hyperion, a suo parere, era una sorta di “agenzia internazionale” per il terrorismo messa in piedi dal Kgb.

Il Kgb

Il servizio segreto sovietico ha forse avuto un ruolo nella vicenda Moro? Anche su questo punto non ci sono prove, ma solo indizi.
Il più grave degli indizi è il fatto accertato che Moro, a gennaio del 1978, due mesi prima di essere rapito, venne avvicinato al termine di una sua lezione universitaria da un giovane che si presentò come uno studente proveniente dall’Urss e giunto in Italia per aver vinto una borsa di studio. Il giovane, che parlava molto bene l’italiano, suscitò l’interessamento di Moro, che prese ad invitarlo a tutte le sue conferenze e che lo ricevette in privato diverse volte.

In varie occasioni, come poi testimoniarono gli assistenti di Moro, il giovane borsista fece tantissime domande sulla scorta e sugli spostamenti dell’onorevole, al punto da destare sospetti. Il giorno del sequestro, il professor Tritto, stretto collaboratore di Moro, avvisò il Viminale, che tuttavia comunicò nei giorni successivi, dopo aver compiuto delle verifiche, che non c’era alcun elemento a carico del giovane studente sovietico, che peraltro lasciò l’Italia il 23 marzo, una settimana esatta dopo il sequestro.

Molti anni dopo, nel 1995, si scoprì nel famoso dossier della spia russa Vasilij Mitrokhin, che quel giovane non era affatto uno studente, ma un ufficiale del Kgb che rispondeva al nome di Fedor Sergej Sokolov.
Il giudice Imposimato, durante la sua inchiesta, scoprì anche che Sokolov, giunto in Italia già nell’autunno del 1977, era già noto ai servizi segreti italiani e che era stato per lungo tempo pedinato a sua insaputa.

Le occasioni mancate

Parecchie furono, durante i giorni del sequestro, le occasioni in cui si sarebbe potuto scoprire la prigione di Moro o quanto meno infliggere un duro colpo ai brigatisti, che molto probabilmente avrebbe comportato un differente corso degli eventi.

Prima fra tutte in ordine di tempo è la mancata perquisizione dell’appartamento di via Gradoli 96, che fu una base importantissima dei brigatisti, dove peraltro abitò Mario Moretti (insieme a Barbara Balzerani) proprio nei giorni del sequestro, sotto il falso nome di ingegner Mario Borghi.

Il 18 marzo, due giorni dopo il sequestro, la polizia perquisì tutti gli appartamenti del condominio, tranne quello dell’interno 11, scala A, perché avendo suonato più volte il campanello, nessuno venne ad aprire. Perché la polizia non abbia sfondato la porta, come pur avrebbe dovuto fare secondo il normale “protocollo” delle perquisizioni, rimane uno dei tanti misteri di questa vicenda.

Il 28 marzo arrivò una telefonata alla sede dell’Ucigos da parte di un informatore ritenuto attendibilissimo, che fece una serie di nomi, raccomandando di controllarli. Tra questi nomi c’erano alcuni importanti brigatisti che avevano preso parte attiva al sequestro e che non vivevano in clandestinità né sotto falso nome. L’Ucigos, tuttavia, rimase inerte per piu' di un mese e soltanto ai primi di maggio iniziò a far pedinare uno dei segnalati, giungendo così alla scoperta della “tipografia delle Br”, in via Pio Foà. Ma anche dopo aver localizzato la tipografia, l’Ucigos aspetterà addirittura fino al 17 maggio, a sequestro concluso, per ordinare ai suoi uomini di farvi irruzione. Nell’operazione furono arrestati Teodoro Spadaccini e Enrico Triaca, due brigatisti che avevano avuto un ruolo importante durante il sequestro e che erano stati in stretto contatto con Moretti.

Il 2 aprile, come è noto, durante una seduta spiritica nei pressi di un casolare nella provincia di Bologna, alla quale partecipò anche Romano Prodi, saltò fuori il nome “Gradoli”. Prodi aspettò ben due giorni per comunicare il fatto; ma non lo comunicò, come avrebbe dovuto, alla magistratura, bensì al capo della segreteria dell’onorevole Zaccagnini, allora segretario della Dc. Soltanto il 6 aprile, la polizia si mosse con l’incredibile farsa del controllo a tappeto del paese di Gradoli, in provincia di Viterbo.

Il 18 aprile, stesso giorno della messa in scena del lago della Duchessa, ci fu la segnalazione dello spandimento nell’appartamento di via Gradoli 96. La scoperta del covo fu certamente pilotata, poiché lo spandimento venne procurato appositamente, posizionando il telefono della doccia sul manico di una scopa, dentro la vasca da bagno, in modo che il getto d’acqua, molto forte, andasse a colpire un’infiltrazione fra le piastrelle del muro.

Anche questa scoperta pilotata ebbe lo scopo di accelerare l’eliminazione di Moro, lanciando un chiaro messaggio ai brigatisti che dovevano sbrigarsi, perché erano ormai con le spalle al muro. Ma fu anche un’altra occasione mancata di arrestare i brigatisti stessi, giacché la polizia, una volta scoperto il covo, facendo degli appostamenti, avrebbe potuto agevolmente tendere un agguato agli inquilini dell’appartamento e arrestarli. Invece, la scoperta fu subito annunciata alla stampa con gran clamore e ci fu un immediato accorrere di numerose auto della polizia a sirene spiegate. In poco tempo via Gradoli fu invasa da agenti di polizia e giornalisti, sicché gli inquilini si guardarono bene dal tornare là…
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Il libro prosegue con altre clamorose e misteriose “falle” durante il sequestro da parte delle forze dell’ordine, con i diversi tentativi di trattativa che videro anche il coinvolgimento della malavita organizzata, nonché con il “giallo nel giallo” costituito dal famoso “memoriale di Moro”, ritrovato in due tranches nell’appartamento di via Monte Nevoso 8, a Milano, il 1 ottobre 1978 e il 24 ottobre 1990.
Concludo riportando testualmente le parole del giudice Imposimato: “Con il trascorrere degli anni e l’acquisizione di nuove prove, e soprattutto dopo il lavoro di redazione di questo libro, mi appare chiara una cosa: il sequestro Moro, partito come azione brigatista alla quale non è estraneo l’appoggio della Raf e l’interessamento, per motivi opposti, della Cia e del Kgb, è stato gestito direttamente dal Comitato di crisi costituito presso il Viminale. Il delitto Moro non ha avuto una sola causa. Ma ha rappresentato il punto di convergenza di interessi più disparati. In questa operazione, perfettamente riuscita, sono intervenuti la massoneria internazionale, agenti della Cia, del Kgb, la mafia ed esponenti del governo, gli stessi inseriti nel Comitato di crisi. Tutti questi, dopo il 16 marzo, hanno vanificato tutte le opportunità emerse per salvare la vita di Moro, spingendo di fatto le Brigate rosse ad ucciderlo”.
Ultima modifica di Insight il ven 27 mar 2020, 10:46, modificato 3 volte in totale.
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