Io, al contrario, mi sentii subito sprofondare in una rassegnata tristezza: ero piuttosto convinto che i miei genitori non mi avrebbero permesso di andare al campo sportivo, a causa della mia salute delicata. Spesso ero quello che in classe, anche quando era presente, non faceva nemmeno ginnastica per le bronchiti e la tosse che mi tormentavano per tutto l’anno. Non potevo scalmanarmi e sudare, che subito mi sarei preso un malanno. Peccato, però, che poi me lo prendevo lo stesso, anche se passavo le ore di ginnastica seduto sulla panca a guardare gli altri…
Eppure, una piccola speranza in fondo al mio cuore ce l’avevo: perché quell’anno era andato assai meglio dei precedenti: soprattutto rispetto alla terza, in quarta ero stato abbastanza bene ed era almeno da febbraio che…non tossivo. Fu una lietissima sorpresa per me, quando i miei, dopo avermi fatto mille raccomandazioni affinché mi coprissi, non prendessi freddo, ecc., mi dissero che potevo partecipare. E mio papà aggiunse: “Sono sicuro che farai bene nelle gare di scatto, tu hai il fisico dello sprinter…”. Era naturalmente una bugia, ma detta a fin di bene. Semplicemente ero piccolo di statura e di solito gli scattisti non sono degli spilungoni, tutto qua.
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La mattina delle selezioni il nostro maestro ci accompagnò al campo sportivo che si trovava abbastanza lontano, quasi sull’altipiano: dovemmo prendere un autobus e un tram su rotaia per arrivarci. Lo stesso fecero i maestri e le maestre delle altre classi quarte e quinte. Già il solo fatto di saltare scuola e di fare quella specie di gita, fu sufficiente a scatenare la nostra gioia…Ed eccoci al campo sportivo, grande, meraviglioso, solenne: uno stadio di calcio regolamentare e, naturalmente, con la pista per le gare di atletica intorno, il materasso con l’asticella per il salto in alto, quello per il salto con l’asta, la vasca di sabbia per il salto in lungo e il salto triplo, gli spazi appositi per le varie specialità di lancio…Insomma, c’era proprio tutto, come alle Olimpiadi…
Ci suddivisero in due grandi gruppi, a seconda dell’anno di nascita: i 1969 da una parte, i 1968 dall’altra. E poi ci fu un’ulteriore ripartizione tra maschi e femmine. In tutto eravamo più di duecento bambini.
Ben consapevole delle mie possibilità e soprattutto dei limiti (1 metro e 30 per 26-27 chili), alcune discipline, come il salto in alto, il salto con l’asta, il getto del peso, i lanci e le corse a ostacoli, non le presi neppure in considerazione e non partecipai alle selezioni. Su consiglio del maestro e dei vari “preparatori atletici”, puntai tutto sul salto in lungo e triplo, e soprattutto sulla gara di velocità, che, essendo noi partecipanti ancora piccoli, era di 50 metri, anziché di 100.
Nei salti, come avevo immaginato, le mie prove furono scarse: non ricordo le misure, ma, insomma, non superai nemmeno il primo turno. Poi ci fu la tanto agognata gara dei velocisti, quella che piaceva a tutti: i 50 metri piani. Mi tornarono in mente le parole incoraggianti di mio papà e attesi con una certa ansia di essere chiamato alla partenza.
Ebbene, nonostante le mie speranze e il pronostico di mio padre, venni bruciato alla prima batteria. Un paio di bambinetti dalla coscia lunga e muscolosa lasciarono tutti ai blocchi di partenza…Diciamo che quando loro erano arrivati al traguardo, io ero appena un po’ oltre la metà del percorso, col gruppo degli ultimi…
Un po’ amareggiato, perché mi ero illuso di arrivare almeno alla finale per le qualificazioni, già mi preparavo per andare a cambiarmi nello spogliatoio, quando gli allenatori iniziarono a girare per il campo avvisando tutti che si sarebbe svolta la selezione conclusiva, quella per la gara di “resistenza”: una corsa di “mezzofondo”, in realtà. Si trattava di percorrere tre giri di pista intorno al campo, quindi erano 1200 metri.
Questa gara, al contrario dei 50 metri, nella classifica di gradimento dei giovanissimi concorrenti si piazzava all’ultimo posto: quasi nessuno voleva parteciparvi perché era considerata molto faticosa. A dire il vero, nemmeno io avevo pensato di cimentarmi in quest’ardua prova: 1200 metri mi sembravano troppi e dissi subito di no. Ma il mio maestro mi esortò: “Vai, questa è la tua gara” mi disse. “Secondo me ce la puoi fare”. Allora, con l’animo di chi ormai non aveva più nulla né da vincere - né soprattutto da perdere - mi decisi a partecipare.
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La gara per la qualificazione si svolse in una tornata unica alla quale partecipammo in tanti, veramente troppi. Ci disposero alla linea di partenza, tutti ammassati, alcuni finirono addirittura dietro, in seconda, terza fila, persino in quarta. Al segnale del via dato da uno degli allenatori abbassando un braccio, una marea di bambini si mosse e invase la pista.Beh, io stesso ero incredulo, quando già verso la fine del primo giro mi resi conto che avevo la maggior parte degli avversari alle mie spalle. Molti miei compagni arrancavano, mentre io mi sentivo bello fresco, respiravo a pieni polmoni e sapevo di avere ancora tanto fiato da spendere…
Dopo essere partito piuttosto male, risalivo sempre di più, superando tre-quattro concorrenti alla volta. All’ultimo giro, quando ero già nel gruppo dei primi, tirai fuori tutta la forza che avevo e mi portai ancora avanti. Conclusi la gara al terzo posto. Il maestro mi aspettò festoso al traguardo. “Sei qualificato!” mi disse. Ma io ancora non ci credevo…
A casa raccontai tutto e comunicai la mia gioia. Mio padre, senza scomporsi più di tanto, mi disse: “Visto? Che ti avevo detto?”
E poi venne il fatidico giorno, quello delle finali. Tutte le gare si svolsero un sabato pomeriggio. Giunsi al campo sportivo accompagnato in macchina dai miei genitori, che si accomodarono sugli spalti insieme a tanti altri. Questa volta si faceva sul serio, c’era persino il pubblico. Vi erano i bambini di tutte le scuole elementari che avevano superato le qualificazioni; i commissari di gara davano il via sparando in aria e avevamo tutti un pettorale col numero. Ma soprattutto mi avevano dato la maglietta col logo della mia scuola e questo mi riempiva di orgoglio: per me era già una vittoria essere arrivato là a rappresentare la scuola, insieme ad altri due, nella finale dei 1200 metri, qualunque fosse stato il piazzamento che avrei ottenuto.
La mia gara si svolse tra le ultime, alla fine del pomeriggio. Anche questa volta eravamo in troppi, almeno una ventina: non riuscivamo a stare tutti sulla stessa linea di partenza e nonostante le raccomandazioni e le minacce di squalifica del commissario, prima del via si sgomitava a volontà: tutti volevano stare in prima fila. Quando ci fu lo sparo, io non riuscii neppure a muovermi, avevo una massa compatta di concorrenti davanti a me. E subito qualcuno, in mezzo ai colpi e alle sgomitate dei più esagitati, incespicò e cadde. Almeno tre bimbetti, più o meno della mia stessa corporatura, mi ruzzolarono davanti e riuscii ad evitarli per poco: mancò un nulla a che mi travolgessero nella loro caduta.
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Dopo i primi metri, i più grandi erano già in fuga e io ero rimasto chiuso in una specie di imbuto: anche se potevo correre di più, non riuscivo a trovare lo spazio per farmi largo. Così passò il primo giro. Qualcosa cambiò verso la metà del secondo. Alcuni del mio gruppo iniziarono a cedere, l’imbuto dov’ero prigioniero a poco a poco si aprì e riuscii finalmente a trovare un varco. Respiravo ancora benissimo e così cominciai la mia gara. Feci uno scatto, trovando la forza non so dove, e corsi come se stessi facendo i 50 metri. Uno dopo l’altro, superai almeno sei avversari che correvano incolonnati lungo la corsia interna della pista. Udii alcune voci dai bordi che mi incoraggiavano: erano adulti, maestri di scuola che non conoscevo, ma ai quali evidentemente ispiravo simpatia forse perché ero piccoletto.All’ultima curva, giunsi alle spalle dei fuggiaschi, quelli che al via erano scattati tra i primi. Ancora più avanti, ormai irraggiungibili, c’erano i due “fuoriclasse”, che, con la loro falcata poderosa, si stavano preparando alla volata finale. Ormai la vittoria era una questione tra loro due. A questo punto, proprio mentre affrontavo l’ultima curva, mi accorsi che avevo dato veramente tutto: non avevo più aria, le gambe erano indolenzite e sofferenti, e il cuore mi martellava nel petto. Cominciai a rallentare. Potevo stare tranquillo: alle mie spalle c’era il vuoto per almeno una ventina di metri. Davanti, oltre ai primi due ormai lontani, avevo quattro avversari che correvano tutti in gruppo, addossati al bordo interno della pista per fare meno fatica. Io ero a cinque o sei metri da loro. Fatti i miei conti, pensai che un settimo posto alla finale provinciale era una posizione di tutto rispetto e che dunque potevo accontentarmi. Soprattutto, stavo soffrendo talmente tanto, che cominciai a stringere i denti, a lacrimare per lo sforzo e a pregare che la gara finisse il più presto possibile.
Invece, a pochi metri dal traguardo, accadde l’inaspettato. Quello era decisamente il “mio giorno”. I quattro davanti a me tentarono lo sprint finale, ma qualcuno là in mezzo sgomitò un po’ troppo. Vidi un turbinio di braccia, un colpire, uno spingere e tirarsi per la maglietta, finché uno incespicò e travolse nella caduta i suoi avversari. Caddero tutti e quattro come birilli, uno sopra l’altro. Con gioia, lo confesso, anche se un po’ ora me ne vergogno, mi spostai tranquillamente verso le corsie più esterne, superai quel groviglio di corpi atterrati e, quatto quatto, arrivai terzo al traguardo: il che significava…Medaglia
I “feriti” se la cavarono tutti con qualche sbucciatura alle ginocchia, alle mani e ai gomiti. Uno, poverino, rimase seduto per terra a strillare: ma piangeva più per la rabbia che per il dolore. Un altro restò seduto a tenersi una mano sul ginocchio e attese i soccorsi. Altri due, invece, ebbero la prontezza di alzarsi e di arrivare al traguardo. Ma il commissario, che era a bordo pista e aveva assistito all’ “incidente”, decise salomonicamente di squalificare tutti e quattro, senza accertare chi era stato a sgomitare per primo, suscitando poi delle proteste (piuttosto accese e “colorite”) addirittura di qualche genitore: assurdo, se ci penso adesso.
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Quel fortunoso terzo posto rimase l’unica soddisfazione sportiva della mia vita. Per qualche giorno, fui molto orgoglioso della mia piccola conquista, poi tutto tornò alla normalità. Non partecipai mai più a una gara di atletica. L’anno successivo, in quello stesso periodo, ero ammalato e non presi parte ai Giochi della Gioventù. Alle medie e alle superiori non se ne parlò nemmeno. La medaglia finì presto dimenticata in un cassetto, ma ancora oggi mi piace ricordare quel giorno, soprattutto perché fu la prima volta in cui capii e toccai con mano quella che secondo me è una piccola verità: sgomitare non serve e alla fine non paga. Perché le cose belle, nella vita, possono anche capitarti così, quando non ci pensi, non le prepari, non te le aspetti e addirittura non ci credi. Ci vuole però, come si suol dire, una certa “prontezza di spirito”. Cogliere l’occasione, quando capita. E poi, si capisce, anche un pizzico di fortuna non guasta