A un ballo mascherato
Sedute davanti c’erano le nostre mamme, e noi due dietro. La macchina era un’utilitaria, guidava la signora. Mi faceva caldo il copricapo di piume, avrei voluto toglierlo, ma che capo pellerossa sarei stato? Lei, la mia compagna di classe, col suo vestito rosso da spagnola, si dava una certa aria da grande, ma lo stesso mi piaceva. In testa aveva una cuffia nera, i suoi lunghi capelli erano nascosti, e nella gonna aveva un grande cerchio.
“Ma davvero si balla alla festa?” le chiedo sottovoce.
“Se vuoi sì, altrimenti…”.
“Io non so ballare”.
“Nemmeno io”.
Allora, mi sento già più tranquillo.
“Balleranno tutti, e noi?” le domando.
“Guarderemo”.
Ma dalla sua voce non mi pare convinta. (Mi assecondava, voleva tranquillizzarmi).
Era pieno di bambini e ragazzini, la musica cresceva di volume, e noi eravamo finiti in un angolo, contro uno dei tendaggi che circondavano la sala.
“Qua bisogna fare qualcosa” penso. “Scappare non si può”. Rompere il silenzio che era sceso tra noi, dovevo impadronirmi della situazione: era come una sfida fra me e lei.
Allora, mi avvolgo tutto in una piega della tenda, mi nascondo come dentro una campana. (Gesto imprevisto, giocoso. Volevo spiazzarla).
“E’ facile” fa lei da fuori.
“Cosa?”. La mia voce esce attutita, dall’interno della campana, e dentro di me sento che trema.
“Ballare”.
Sul palcoscenico, il complesso aveva cominciato a suonare e a poco a poco si riempiva la pista. Ora bisognava parlare forte per farsi sentire.
Ballavano almeno due Superman, un Napoleone e tanti Zorro; pirati, dame, olandesine, zingare, fate e streghe, diversi Goldrake.
Io perdevo sempre più terreno, ormai non ero nessuno per lei.
“Aranciata?” grido dopo un po’. E’ un grido di aiuto, come se stessi affogando in mare aperto. E lei, impietosita, mi getta il salvagente: ci spostiamo nel bar.
“Basta muoversi un po’ e seguire la musica” fa lei, bevendo l’aranciata.
“I pellerossa non ballano”.
“Sì, invece”.
Lo strappo è fatto, compare il broncio sui nostri visi e la “guerra” tra noi due è scoppiata. Torniamo in sala, piovono coriandoli dal soffitto. Lei incontra un suo amico mascherato da Lord Fener e si lancia in pista con lui. Rimango a guardare solo per un po’, poi mi ritiro, ferito, sconfitto, deluso.
No, andare su dalla mamma, no, sarebbe troppo umiliante. Giro per la sala, mi allontano dalla pista da ballo, poi entro nei bagni e mi guardo allo specchio. Caldo, fa caldo, mi tolgo l’ingombrante copricapo di piume, lo piego, lo trasformo in un banalissimo rotolo, e lo metto sotto il braccio. Così mi sento più me stesso, mi sembra più facile sopportare il mio piccolo grande dolore.