Primavera che non vieni... (Racconto sull'amicizia)
Non esiste nulla di più inaffidabile della primavera, ora lo so. Ma da bambino…
“San Benedetto, la prima rondine sotto il tetto”, mi avevano insegnato fin dalla prima elementare. Eppure, nonostante il calendario parlasse chiaro, dalle mie parti, nell’anno 1978, ci fu un lunghissimo e rigido inverno, con bora, neve e ghiaccio, e stufa accesa nelle case fino ai primi di maggio. Alla fine di marzo, quando si colloca questo mio ricordo, di una rondine non si era vista nemmeno l’ombra…
Un pomeriggio, in quel periodo, gironzolavo da solo nel posto dove ero solito andare a giocare, salute permettendo. Erano le rovine di un antico tempio romano, a pochi passi da casa mia. Ma anche una cattedrale, un castello del medioevo e, poco più in là, un parco dedicato ai caduti delle due guerre: lapidi tristi, sassi bianchi e silenziosi, in mezzo all’erba sempreverde, tra i viali appesantiti dai cipressi.
Faceva freddo, avevo promesso, a casa, di tornare presto. Ero venuto, senza un preciso appuntamento (così funzionava allora tra i bambini che abitavano in zona) a cercare qualche amico. Invece, niente. Ciondolavo già da un po’ senza incontrare anima viva. Nessuno a giocare a pallone tra il colonnato del tempio. Nessuno in bicicletta. Salire sul “sommergibile” (così chiamavamo il resto di un muro antico, tutto sconnesso, che pareva avere una torretta e uno scafo affusolato davanti) peggiorò la situazione, facendomi sentire ancora più solo.
Il rosone della cattedrale, il basso campanile, la statua di San Giusto, patrono della città: tutto ciò che guardavo mi diceva che era ancora inverno e che avrei fatto assai meglio a tornarmene a casa, al caldo. La primavera era solo sul calendario e nella mia testa.
Quando lo vidi da lontano, già sulla via di casa, fu come un miraggio, un’oasi di primavera in quel deserto invernale, il salvatore del mio pomeriggio. Non era semplicemente un amico, ma quello che più di tutti avevo nel cuore: il mio migliore amico.
La giornata s’illuminò, perché lui sapeva sempre cosa fare e io, io…l’avrei seguito ovunque. Con un certo rammarico, ora però, non posso dire che mi sarei “gettato nel fuoco” per lui…Continuate a leggere, e capirete che cosa intendo.
“Perché no?”. Mi attirava l’idea, sebbene avessi un po’ di paura. Ma mi fidavo di lui.
“Ho i fiammiferi” fa l’amico, e mi indica la tasca del suo giubbotto.
“Allora, andiamo”.
Nel parco dei caduti, sotto un albero ombroso. Le fronde in alto si muovono, tira vento. Non sarà facile. Siamo soli noi due, con le mani infreddolite. Togliamo zolle di terra mezza gelata, facciamo un piccolo fosso. E’ l’inizio della nostra opera, del fuoco della primavera. Aghi secchi di pino, qualche foglia accartocciata, piccoli rami caduti dall’albero e la scatola di fiammiferi. Prova lui. Questo fuoco non vuole nascere, i fiammiferi si spengono subito. Provo io: uguale. Proviamo insieme, le nostre mani concitate si toccano, si intrecciano, si chiudono a conca per far respirare la fiamma. Inutile.
“Ci vuole carta di giornale” fa lui, deciso.
“E dove la troviamo?”.
“Tra i rifiuti”.
Torniamo dall’altra parte del castello, dove ci sono i bidoni della spazzatura.
Cerca nel primo, cerca nel secondo. Niente. Solo barattoli di latta, plastica e cose troppo schifose da toccare. Torniamo al fosso, proviamo con l’erba. Ne strappiamo tanta, facciamo un bel cumulo dentro la buca che abbiamo scavato. Primo fiammifero, niente. Secondo, niente. I fiammiferi stanno finendo…
D’un tratto, una scintilla nell’erba secca va a segno e inizia a svilupparsi una fiamma.
Non serve alimentare il fuoco, cresce da solo in pochi secondi. Cresce, aumenta…Cresce troppo davanti ai nostri occhi increduli, spaventati ormai.
Sempre mi ricorderò questa scena: io che faccio un salto all’indietro e lui, matto, che atterra con tutti e due i piedi nel fosso infuocato e lo spegne, calpestando le fiamme con gli stivali. Si sprigiona una colonna di fumo e abbiamo un bel da fare a soffocare il focolaio con la terra, ridendo, adesso che non c’è più pericolo.