Allora vi lascio un ricordo-racconto che parla di un Ferragosto di ormai tanti anni fa, nella speranza che possa allietare chi dovesse passare da queste parti.
Tutto il mare sopra di me. (Racconto…subacqueo)
Perché io, dentro di me, senza confessarlo a nessuno (nemmeno a mio fratello, le volte ormai rare in cui ci giocavo), le chiamassi “bombe di profondità” anziché “bombole subacquee” o “d’ossigeno” o semplicemente “bombole”, è presto detto: per via di quella loro forma a sigaro e per il fatto di essere piene d’aria (che, per quel che ne sapevo, era pur sempre un gas) compressa nell’involucro. Avevano la forma di cose destinate a scoppiare. O, almeno, potevano esplodere: altrimenti non si spiegavano quelle quattro lettere (“bomb”) che formavano il loro nome. E non era poi, quella, la forma degli ordigni sganciati dagli aerei da guerra e - Dio mio - della stessa bomba atomica?
Avvolte in una rete dalle maglie larghe, giacevano in fondo al bagagliaio estivo dell’auto insieme al fucile con la forchetta e l’arpione, la sacca da sub con le pinne di profondità, il coltellaccio e la cintura coi piombi: oggetti con cui da sempre avevo visto familiarizzare mio padre; per me, invece, per quanto innumerevoli volte li avessi visti, erano estranei, lontani, proibiti. Oggetti da film avventurosi, da agente 007: come la pistola che teneva nascosta in un cassetto della camera da letto, i caschi da motociclista sopra l’armadio, le radiotrasmittenti e l’oscilloscopio nella stanza dove dormivo, i pesi per rinforzare i bicipiti sotto il mobile della cucina, la corda, i moschettoni e i chiodi per scalare le pareti rocciose chiusi nel ripostiglio. Più lo vedevo familiarizzare con quegli oggetti, più lo assimilavo ad essi. E più, crescendo e covando un certo segreto disagio, sentivo che io, pur essendo sangue del suo sangue, non sarei mai stato come lui.
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Quando comparvero le “bombe” in quel Ferragosto ormai lontano, il sole era già basso ma bruciava ancora sui lastroni di roccia bianca e ci preparavamo per un ultimo bagno. In quel tratto desolato di spiaggia verso la punta dell’Istria, dove per tutto il giorno eravamo soli noi quattro, la campagna che si estendeva alle nostre spalle diventava roccia per pochi metri e terminava nel mare. Dal verde della fitta boscaglia, al bianco della pietra, all’azzurro intenso del mare sterminato davanti a noi. Una spiaggia splendida e selvaggia, talmente breve che rischiava di scomparire con l’alta marea. Allora, quando il mare si alzava lento nella sua potenza, dovevamo raccogliere la roba e arretrare fin quasi dentro la campagna. Chi, come me, si divertiva ad osservare e a cogliere in quel piccolo disagio il fenomeno naturale e inesorabile; e chi, invece, come mia madre, domandava sconsolata perché non potevamo scegliere una spiaggia “normale come tutti i cristiani”. La risposta rimaneva sempre nella mente dell’“agente 007”…Fu forse per salvare una giornata un po’fiacca, troppo simile a tante altre domeniche estive, che fecero comparsa, verso la fine, le “bombe”. Io e mio fratello non si giocava più come un tempo: solo a giochi seri come le carte. Oppure, anche a niente: tanto era cambiato, rispetto a solo un’estate prima, che riusciva a starsene in silenzio o ad ascoltare la sua musica con l’auricolare della radiolina per ore e ore. E non sempre gradiva la mia compagnia. Doveva essere il principio dell’adolescenza, l’inizio di quel “mostro” che di lì a poco me l’avrebbe portato via. Ma intanto, in quel Ferragosto, ci salvarono le “bombe di profondità”.
Fu naturale che le facesse provare prima a lui e non era escluso (come veramente io pensavo) soltanto a lui, che aveva già il fisico per potersele caricare e portare sulle spalle nuotando. Eravamo a una decina di metri dalla riva e io, con maschera, boccaglio e pinne, lo guardavo nuotare sotto di me, con le “bombe” sulla schiena che sfavillavano d’argento. Ogni tanto volgevo lo sguardo a riva, verso mia madre in piedi sull’ultimo scoglio, in apprensione. Mi era facile immaginare a che cosa stesse pensando quella povera donna, con la quale da tempo ormai mi sentivo complice. A qualcosa del tipo: “Se vuoi ammazzarti fai pure, ma almeno lascia stare i figli”.
Mio fratello, al contrario, pareva assai divertito e guardandolo riavvicinarsi alla superficie gli vedevo le labbra sorridenti strette sull’erogatore e i capelli inondati di bollicine. “Ti ci volevano le bombe, eh, per farti divertire…” avrei voluto dirgli con una punta di stizza, perché per tutto il pomeriggio aveva messo su il muso e non mi aveva calcolato.
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Non sapevo se essere veramente contento quando mise le “bombe” anche sulle mie gracili spalle, allacciandole più strette che si poteva. Erano enormi per me, prendevano più di metà del mio corpo. Tutto si svolse come in un film muto, specialmente da quando mi trovai in bocca l’erogatore e cominciai a prendere confidenza con quell’aria gommosa. Se respiravo bene dovevo muovere la testa. Un attore con la volontà annullata, mi sentivo, che doveva recitare una parte scritta da altri. Ma non c’era motivo d’avere paura, questo mi andavo ripetendo. Quando mi mollò, fu un’immersione rapida come quella dei sommergibili. Gli inconvenienti di tutte le operazioni improvvisate, non tardarono a manifestarsi: per quanto le cinghie fossero strette al massimo, ad ogni colpo di pinna le “bombe” giocavano a spostarsi sulla mia schiena e con la parte superiore mi colpivano la testa: non erano proprio carezze e qualcuno là sopra, dopo un po’, lo capì tenendole ferme con le sue mani forti. Ora mi guidava lui, reggendomi dall’alto per le “bombe”, così avevo il modo di rilassarmi e guardarmi intorno, di sentirmi come in un documentario di Jaques Cousteau, a parte il frastuono del mio respiro che si trasformava in bollicine.
Infine mi lasciò andar giù, come si era ripromesso. Mio fratello mi seguì fin dove poté, poi la discesa negli “abissi” divenne affar mio. Inutile spingere con le pinne, comandava il peso delle “bombe”. Dolcemente, ma dritto come una zavorra, mi avvicinavo al fondo. Con le mani atterrai nel morbido della sabbia.
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Adagiato su un fianco, mi godevo il paesaggio acquatico. Ero atterrato in uno spiazzo fra due grandi scogliere: sul fondale, la sabbia dolcemente increspata dalle onde che vi avevano disegnato sopra il loro incessante passaggio; intorno, due colline rocciose, cosparse di ricci e anemoni rosate. L’azzurro, sullo sfondo, si perdeva nell’infinito. Banchi di pesci striati d’argento passavano in lontananza, disturbati soltanto dal mio respiro. Ma più di tutto ero attratto dallo specchio della superficie, che se alzavo lo sguardo mi pareva così lontano. Vedevo le due ombre che vegliavano sopra di me e, come attraverso una lente gelatinosa, l’altro azzurro, altrettanto immenso, del cielo. Le bollicine, intanto, salivano allegramente, illuminate dai raggi obliqui dell’ultimo sole. Quando l’ombra paterna cominciò a scendere, capii con dispiacere che la mia discesa nel mondo sommerso era giunta alla fine; allora, per un’ultima volta, mentre già le sue mani afferravano le “bombe” e mi sollevavano dal fondo, come se avessi voluto catturare per sempre quel momento, pensai con intensità a dove incredibilmente mi stessi trovando, all’aria che respiravo. E soprattutto al mare, a tutto quel mare sopra di me.